Il pianeta Marx meticolosamente illustrato. 1. Farsi l’idea di un fatto. Cronache marXZiane n. 17
di Giorgio Gattei
«Perché? – Perché l’universo non è una favola».
(Cixin Liu, Nella quarta dimensione, 2018)
1. A questo punto devo dar conto del significato d’esistenza di quel “pianeta Marx” che sto lentamente esplorando e descrivendo in queste mie Cronache. Ho già detto altrove che, dopo Nietzsche, siamo consapevoli che ci sono i fatti ma pure le loro interpretazioni e che noi, che viviamo nei fatti, ci muoviamo secondo le interpretazioni che ce ne facciamo. Abitiamo così in due ambiti simultanei di esistenza: quello delle esperienze concrete (che rimangono personali e indicibili, dato che soltanto noi sappiamo quanto è veramente accaduto), ma pure dentro quei concreti di pensiero di cui ha detto Karl Marx nelle uniche pagine sul metodo che ha lasciato nella Introduzione alla critica della economia politica (1857) contrapponendo al “concreto fuori di noi”, che è «sintesi di molte determinazioni, cioè unità del molteplice», un “concreto dentro di noi” che altro non è se non «la riproduzione del concreto lungo il cammino del pensiero» come lo riflette il cervello, «come un tutto del pensiero che è un prodotto dal cervello che pensa e che si appropria del mondo nell’unico modo a lui possibile, almeno fino a quando il soggetto si comporta solo speculativamente, solo teoricamente». Certamente sono i fatti che inducono al pensiero (se nulla accade, nemmeno nulla si pensa), però su quei fatti noi ci facciamo dei penseri e sono questi che indirizzano il nostro comportamento nel confronto di quei fatti.
Ma ciascuno di noi si fa una rappresentazione di quanto gli accade non soltanto per sé, ma pure per comunicarla agli altri con la parola, lo scritto o con i gesti (che sono i “comportamenti non verbali”), ma per arrivare a questo bisogna inserire il “concreto di pensiero” dentro un ordine del discorso che possiede delle regole di costruzione proprie (mentre le regole della realtà restano fuori dalla porta), dovendosi scontare con gli altri una comunanza di linguaggio, di scrittura o di gestualità, perché altrimenti non ci si capirebbe. Per questo qualsiasi concreto di pensiero non può che risultare una rappresentazione approssimativa del fatto, una sua immagine allusiva, come per Paolo di Tarso (Prima lettera ai corinzi 13,12) quella sua idea del Dio che conosceremo nell’aldilà, ma che «adesso vediamo in immagine come in uno specchio» e quindi in una maniera confusa ed incerta, dato che la qualità degli specchi del tempo non consentiva di meglio (il che comunque era un avanzamento rispetto a quanto aveva mostrato Dio a Mosè sul monte Sinai che furono soltanto le sue terga, dato che «quando passerà la mia gloria, ti coprirò con la mano finché sarò passato, poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, dato che il mio volto non lo si può vedere» (Esodo, 33.22-23). Ma anche quando poi la fattura degli specchi rese le immagini riflesse più lucide e nette, esse sarebbero rimaste comunque ingannevoli, come doveva verificare Alice (in L. Carroll, Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, 1871) dato che, anche potendo entrare nello specchio, ci si accorgerebbe che «gli oggetti sono disposti al contrario», così che ciò che fuori sta a sinistra, dentro finisce a destra e viceversa.
2. Ci sono però anche “concreti del pensiero” che si condividono con altri e queste sono le ideologie che riflettono il comune “concreto di pensiero” di un fatto, di cui le ideologie sono il riflesso, finché quel fatto non viene a mutare confermando l’avvertenza di K. Marx (nella prefazione a Per la critica della economia politica, 1859) a distinguere «il rivolgimento materiale che si verifica nelle condizioni economiche di produzione dalle forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, in breve ideologiche, in cui gli uomini si rendono coscienti di questo conflitto e si battono per risolverlo» che poi altro non sarebbe che la distinzione canonica tra la “struttura materiale” e la “sovrastruttura coscienziale”). Certamente resta vero che il fatto è «il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione» (Introduzione del 1857), ma quando il fatto muta ed il “concreto di pensiero” non gli collima più, allora «io cambio opinione; lei cosa fa, signore?», avrebbe detto una volta J.M. Keynes a ricordo di P. Samuelson (“Wall Street Journal”, 1978). Così, se risulta fasulla l’opinione di G.W.F. Hegel, in una lettera a F. Niethammer del 28 ottobre 1808, per cui «il lavoro teoretico porta ad effetto nel mondo più cose di quello pratico perché, una volta rivoluzionato il regno delle rappresentazioni, la realtà non è in grado di resistergli», vale invece l’osservazione di F. Engels, a memoria di N.S. Ruzanov, che «la coscienza segue sempre, zoppicando, l’essere sociale» (in Colloqui con Marx e Engels, 1977).Ma come avviene il travisamento del fatto dentro il “concreto di pensiero”? A dispetto di tutte le spiegazioni successive, sembra restar valida l’elencazione proposta da F. Bacon (italianizzato in Bacone) nel Novum organum (1620) partendo dalla constatazione che «la mente umana, impressionata dalle cose attraverso i sensi, introduce e mescola senza fedeltà la propria natura alla natura delle cose quando forma e organizza le sue nozioni». E’ così che nella coscienza si producono dei travisamenti, delle falsificazioni, delle allucinazioni (idola per Bacone) che si accumulano a partire dalla prima contaminazione con le proprie fantasticherie (“idola della tribù”) e poi dal confronto con le fantasticherie altrui (“idola della caverna”) e quindi con l’equivoco della traduzione nel linguaggio comune (“idola del mercato”) per finire con l’influenza delle dottrine filosofiche correnti che «chiamiamo “idola del teatro” perché consideriamo tutte le filosofie come altrettante favole presentate sulla scena e recitate che hanno prodotto mondi fittizi da palcoscenico».
A queste condizioni, pare evidente che le ideologie (da declinare al plurale perché ce ne sono state di diverse forme) non siano altro che false coscienze del fatto, come avrebbe spiegato F. Engels a F. Mehring il 14.7.1893: «l’ideologia è un processo che il cosiddetto pensatore compie senza dubbio con coscienza, ma con una coscienza falsa, dato che le vere forze motrici che lo spingono gli restano sconosciute, altrimenti non si tratterebbe più di un processo ideologico, così che egli s’immagina delle forze motrici che sono false o apparenti» – e questo almeno perché le ideologie, in quanto “concreti di pensiero”, sono incapaci di dire tutto e sono anche “di parte”, essendo l’espressione di qualcuno più o meno autorevole (a meno di non credere alla cosiddetta “parola del Signore”).
3. Se l’ideologia rimanesse confinata al mondo dei pensieri, la si potrebbe considerare anche un danno da poco, ma essa, indirizzando i nostri comportamenti concreti, finisce per acquistare una esistenza materiale sulla quale ha insistito particolarmente L. Althusser in Ideologia e apparati ideologici di Stato (1970). Infatti, «un individuo crede in Dio o nel dovere o nella giustizia per una “fede” che proviene dalle idee di questo individuo, quindi da lui, come soggetto che ha una coscienza nella quale sono contenute le idee della sua fede ed è da essa, cioè dal dispositivo “concettuale” perfettamente ideologico creato in tal modo, che un soggetto dotato di una coscienza dove forma liberamente o riconosce liberamente delle idee alle quali crede, fa derivare il proprio comportamento (materiale, naturalmente)». E che altro sarà mai questo comportamento se non l’insieme delle sue pratiche «regolate da rituali nei quali esse si iscrivono in seno all’esistenza materiale di un apparato ideologico, fossero anche in una piccola parte di questo apparato: una piccola messa in una piccola chiesa, un funerale, un piccolo incontro in una società sportiva, una giornata di lezione a scuola, una riunione o un incontro di un partito politico, ecc.». «Diremo dunque, per prendere in considerazione un solo soggetto (questo individuo), che l’esistenza delle idee della sua fede è materiale, in quanto le sue idee sono i suoi atti materiali inseriti in pratiche materiali regolate da rituali materiali, essi stessi definiti dall’apparato ideologico materiale che produce le idee di questo soggetto». Tanto contorsionismo verbale per dire soltanto che per attraverso l’ideologia «l’individuo è interpellato come soggetto (libero) affinché si sottometta liberamente agli ordini del Soggetto (quale si materializza nei diversi “apparati ideologi di stato”), affinché accetti quindi (liberamente) il suo assoggettamento, perché cioè ‘compia da solo’ i gesti e gli atti del suo assoggettamento». E che ne consegue? Che quegli individui “assoggettati” dalla ideologia «riconoscono che bisogna ubbidire a Dio, alla coscienza, al curato, a De Gaulle, al padrone, all’ingegnere, che bisogna ‘amare il prossimo come sé stesso’, ecc. Il loro comportamento concreto, materiale non è che l’iscrizione nella vita dell’ammirevole parola della loro preghiera: ‘E così sia’». E si avverte, in filigrana all’involuto ragionamento dell’autore, il sofferto ricordo personale (confessato nell’autobiografia) di aver assistito, in occasione dell’espulsione della moglie dal Comitato cittadino del partito a cui entrambi erano iscritti sulla base di una accusa che lui sapeva infondata, che «al momento del voto tutte le mani si alzarono e, con mia vergogna e stupore, io vidi la mia stessa mano che si alzava» (L. Althusser, L’avvenire dura a lungo, 1992).
4. Essendo l’ideologia una creazione squisitamente umana, essa non può possedere una vita propria ma soltanto riflessa, essendo gli uomini, «che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali, che trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero» (K. Marx, L’ideologia tedesca, 1846). Senza storia autonoma certamente, ma nel tempo con forme differenti a partire dalle ideologie religiose, che sono stata le più antiche e l’esempio delle altre, secondo le quali “c’è un Dio (quale che sia) che ci ha creato”, a cui hanno fatto seguito le ideologie politiche per cui “occorre un Stato ci protegga” (dopo aver stabilito chi sia il nemico) e infine le ideologie filosofiche per cui “sono le Idee che c’illuminano” (sul cammino che ci vogliono far percorrere) che sono state le più recenti ma anche le più variegate (gli “ismi” di tutti i colori). Ma quali ne siano state le modalità storiche che hanno preso, che altro erano mai se non “false coscienze” del fatto che qualsiasi Dio, Stato od Idea era creazione della nostra mente, che siamo stati noi ad aver dato a loro esistenza e che quindi dovrebbero essere al nostro servizio e non viceversa? E invece ci sottomettiamo volontariamente a qualche Dio, a qualche Stato, a qualche Idea, confermando la barzelletta dell’ubriaco che cerca le chiavi sotto il lampione non perché lì le abbia perse, ma perché è lì che c’è la luce.
Comunque nei secoli le “ideologie storiche” hanno potuto condurre una vita spensierata finché non hanno tentata una loro “comparsata generale” nella filosofia speculativa di Giorgio Guglielmo Federico Hegel (ma quando nomi per un cognome solo!) dove l’Idea assoluta (chiamata Spirito o piuttosto Geist) si sarebbe dovuta “inverare” in un conclusivo “Stato cristiano-prussiano” che avrebbe compensato l’immiserimento economico della “società civile” con il felice godimento dei “diritti di libertà” (della serie: sono povero ma sono libero e questo mi basta): «lo Stato moderno produce nella realtà effettiva la massima ineguaglianza concreta degli individui, ma mediante la più profonda razionalità delle leggi e il consolidamento della legalità realizza una libertà tanto più grande e meglio fondata così da consentire di sopportarla» (G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, 1830, § 539, traduzione adattata). E’ stato allora, davanti ad una simile prospettiva, che un giovanissimo Karl Marx è insorto per regolare i conti dapprima con l’ideologia in generale, con quel rovesciamento del “rapporto di predicazione” che fa sì che «la condizione diventa il condizionato, il determinante il determinato, il producente il prodotto del proprio prodotto» (K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, 1843) e poi, insieme all’amico Friedrich Engels nella successiva Ideologia tedesca (1846), con tutti quei “sinistri” epigoni di Hegel di lingua alemanna (da cui l’aggettivazione di “ideologia tedesca”) che sono capaci di opporre alle “frasi del mondo” null’altro che “un mondo di frasi”. Ma lasciamo dire il testo (che gli autori avrebbero voluto affidare alla “critica roditrice dei topi” ma che invece fortunatamente si è salvato): «finora gli uomini si sono sempre fatti idee false intorno a sé stessi, intorno ciò che essi sono o devono essere. In base alle loro idee di Dio, dell’uomo normale, ecc. essi hanno regolato i loro rapporti e i parti della loro testa sono diventati più forti di loro. Essi, i creatori, si sono inchinati di fronte alle loro creature. Liberiamoli dalle chimere, dalle idee, dai dogmi, dagli esseri prodotti dall’immaginazione sotto il cui giogo essi languiscono. Ribelliamoci contro questa dominazione dei pensieri!».
Ma come è stato possibile che si sia giunti tanta supremazia dei “prodotti della mente” sui risultati del fare? È stata la conseguenza della separazione del lavoro mentale dal lavoro manuale, ennesima manifestazione di quella divisione del lavoro «che all’origine non era altro che la divisione del lavoro nell’atto sessuale» (così che il maschio stava sopra e la femmina sotto e Lilith, la prima compagna di Adamo che intendeva invece stare sopra, è stata frettolosamente sostituita da una Eva sottomessa e quindi rimossa dalla Bibbia: cfr. F. Nucci, Eva o Lilith? Identità femminile nella società (post)patriarcale, 2015). È stata da quella originaria contrapposizione del cervello dalla mano che la coscienza ha potuto «realmente figurarsi di essere qualche cosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa senza concepire alcunché di reale e da quel momento la coscienza è stata in grado di emanciparsi dal mondo e di passare e formare la “pura” teoria, teologia, filosofia, morale ecc.».
Ma almeno le fosse bastato! Niente affatto, perché poi quei “concreti di pensiero” si sono materializzati in istituzioni apposite (le chiese per il Dio, i governi per lo Stato, i partiti per le l’Idea) così da «consolidare il nostro proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri calcoli» e che ci appare sempre più «come una potenza estranea, posta al di fuori di noi, della quale non sappiamo donde viene e dove va, che quindi non possiamo più dominare e che al contrario segue una sua propria successione di fasi e di gradi di sviluppo che è indipendente dal volere e dall’agire degli uomini e anzi dirige questo volere e agire». E davanti a tanto risultato vale ben poco l’analogia con il riflesso dello specchio che disloca appena nell’immagine l’oggetto da sinistra a destra o viceversa; qui piuttosto è all’opera l’effetto della “camera oscura” che sulla retina dell’occhio imprime una immagine capovolta da sopra a sotto, proprio come sembra che il sole giri attorno alla terra (non continuiamo a dire che “sorge” e “tramonta”?) quando astronomicamente è la terra a girare intorno al sole. Lo stesso vale per l’ideologia: posto che «la produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza è in primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, … se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediata processo fisico». È la conseguenza obbligata di quella separazione-autonomizzazione-sottomissione del “lavoro della mente” rispetto alla realtà delle cose che ci fa credere che qualcosa possa starci sopra.
5. Il troppo giovane Marx si era tuttavia illuso che bastasse la presa di coscienza che ciò che conta è ciò che sta in basso per liberarsi dalla “falsa coscienza” dell’ideologia quando scriveva ad A. Ruge nel settembre del 184, che «da tempo il mondo possiede il sogno di una cosa della quale non ha che da prendere coscienza per possederla realmente». La questione non era però affatto così semplice dato che l’ideologia serve, eccome, rispondendo a quel bisogno di servitù volontaria che Etienne de la Boétie doveva denunciare nel XVI secolo e per il quale ci si sottomette volentieri agli ordini di «Uno» pur di sottrarsi al peso della responsabilità di decidere ogni volta personalmente dei propri atti: «è un fatto davvero sorprendente e nello stesso tempo comune vedere milioni e milioni di uomini asserviti come miserabili, messi a testa bassa sotto a un giogo vergognoso non per costrizione di forza maggiore ma perché sembra che siano affascinati e quasi stregati dal solo nome di Uno.… Ma come fa quell’Uno ad avere potere su di voi senza che voi stessi vi prestiate al gioco? E come oserebbe balzarvi addosso se non fosse già d’accordo con voi? Che male potrebbe farvi se non foste complici del brigante che vi deruba, dell’assassino che vi uccide, se insomma non foste traditori di voi stessi?» (E. de la Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, 1979). Ma questo succede perché, così come sappiamo che “comandare è meglio che fottere”, altrettanto obbedire è meglio che decidere e non si venga a dire che ormai siamo stati vaccinati dalla storia per cui «l’obbedienza non è più una virtù» e «ribellarsi è giusto», se tuttora si dedicano ricerche su quel “bisogno di sottomissione” che continuiamo a portarci dentro (F. Ciaramelli e U.M. Olivieri, Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressa, 2013; La servitù volontaria. Un approccio interdisciplinare, “Teoria politica”, 2022), tanto che anche il «preferirei di no» di Bartleby lo scrivano (H. Melville, 1853) finisce per apparire un pericoloso gesto d’insubordinazione.
Ma c’è di peggio perché le ideologie lasciano dietro di sé «una sedimentazione di senso comune che è il documento della loro effettualità storica» su cui ha insistito Antonio Gramsci in quei Quaderni del carcere, pubblicati postumi, in cui ha condensato le sue considerazioni sul perché mai la “rivoluzione in Occidente” degli anni ‘20 del Novecento fosse abortita nonostante le buone premesse poste “in Oriente”. E tra le cause del fallimento (quella «robusta catena di fortezze e casematte» che serve a difendere lo status quo) c’era pure l’acquiescenza a quel «folklore della filosofia» che si chiama “senso comune” che «in fondo è la concezione della vita e della morale più diffusa» e in cui si sommano «elementi dell’uomo delle caverne e princìpi della scienza più moderna e progredita, pregiudizi di tutte le fasi storiche passate grettamente localistiche e intuizioni di una filosofia avvenire quale sarà propria del pensiero umano unificato mondialmente». Si tratta di una miscela di idee «disgregata, incoerente, incongruente… in cui si può trovare tutto ciò che si vuole», ma che svolge la funzione ben precisa di agire sugli individui «come forza politica esterna…, come elemento quindi di subordinazione ad una egemonia esteriore che limita il pensiero della masse popolari negativamente, senza influirvi positivamente» (A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, 1952). È ancora una volta la trappola dell’ideologia ed è per questo, come ha riassunto un interprete recente, che il senso comune andrebbe considerato come «un valore inevitabilmente negativo, quasi sempre reazionario, che andrebbe studiato storicamente e non solamente, come si è sempre fatto, come elemento pittoresco» (M. Filippini, Tra scienza e senso comune. Dell’ideologia in Gramsci, “Scienza & Politica”, 2012 in rete; ma vedi anche in specifico S. Cavazza, Folklore in camicia nera. Studi sul fascismo e tradizioni popolari, 2024).
6. Con un siffatto armamentario di servitù sia “volontarie” che “involontarie” le ideologie storiche hanno potuto competere fra di loro nei secoli, ciascuna opponendosi alle altre perché il mio Dio non è il tuo, ma nemmeno il mio Stato e neppure la mia Idea, e con una vocazione totalitaria ad imporre il proprio Dio, il proprio Stato, la propria Idea anche con la violenza della guerra (di religione, di supremazia, di ideologia) producendo il risultato tragico di lasciare dietro di sé una tale scia di sangue che ha reso sgomento quell’angelus novus della storia di Walter Benjamin che, spinto «irresistibilmente nel futuro» dalla «tempesta del progresso» ma avendo «il viso rivolto al passato», non può che vedere «una sola catastrofe che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi» (Tesi sulla filosofia della storia, 1940).
Eppure da quelle micidiali ideologie storiche stiamo pur cercando di venir fuori (ma con fatica dato che i “prodotti della mente” sono i più duri a morire), ma non tanto per una iniziativa alternativa di pensiero (che sarebbe altrettanto ideologica), bensì per la trasformazione materiale dello “stato delle cose” di cui l’ideologia non è altro che il riflesso “da specchio” o “da camera oscura”, valendo comunque la regola marxiana che solo quando cambia la base economica «viene ad essere sovvertita, più o meno rapidamente, tutta l’enorme sovrastruttura delle forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche, filosofiche, in breve ideologiche» (K. Marx, Prefazione del 1859). E proprio così è stato a seguito di quell’evento storico concreto, eccezionale quant’altri mai, che è stato l’incontro accidentale di Cristoforo Colombo con l’America nel 1492 e da cui è conseguita una tale sequela di conseguenze economiche e sociali che hanno portato alla introduzione di una nuova maniera del produrre “a lavoro libero salariato” acquistabile su di un mercato apposito, che ha posto fine alle precedenti forme del lavoro schiavile e servile. Ma conseguenza necessaria ulteriore è stata anche la sostituzione dei precedenti “concreti di pensiero” con un riflesso nella mente più adeguato alla nuova realtà delle cose e questo è stato l’affermarsi di quella ideologia economica (ma quale religione, politica o filosofia!) per cui “la Merce ci fa liberi di scegliere” (se lavorare o meno, se acquistare o meno) per la cui critica Marx ha speso tutto il resto di sua vita nelle migliaia di pagine dei Grundrisse e del Capitale in opposizione a quella che, per somiglianza con la precedente “ideologia tedesca”, si potrebbe anche chiamare l’ideologia britannica, sia perché nata all’origine in Gran Bretagna ma poi perché ormai si veicola soprattutto con pubblicazioni in lingua inglese, così che chi non la parla o non la scrive è come se fosse muto. Ma è questo un argomento d’importanza così capitale (come è proprio il caso di dire) da meritare una “Cronaca MarXZiana” tutta per sé.