Marx all’Inferno. Canto III bis della Divina Commedia
a cura di Terry Dalfrano
Dobbiamo alla cortesia della casa editrice bolognese “Ogni uomo è tutti gli uomini”, nella persona di Silvia Gajani, che ha pubblicato il cartaceo, se possiamo mettere in rete il maggior scoop del “bicentenario marxiano” (a duecento anni dalla sua nascita), ossia il ritrovamento di un Canto inedito della Divina Commedia in cui il “sommo poeta” Dante Alighieri ha messo in versi il suo paradossale incontro all’inferno con Carlo Marx, paradossale sia perché Marx è vissuto ben dopo di lui, sia perché se lo ritrova piazzato nel girone degli ignavi, dove scontano la pena peraltro anche gli economisti. Ma perché mai Carlo Marx sia stato condannato da Minosse a siffatto girone, lui che nella vita terrena era stato tutto meno che ignavo, glielo spiegherà personalmente a Dante al momento del loro incontro, come scritto in questo sorprendente “Canto III bis della Divina Commedia”.
PRESENTAZIONE
“Ho fatto la scoperta del millennio: un Canto inedito della Divina Commedia”. Esordì così Settimio Sbarbato, attempato ricercatore d’italianistica all’Università di Siena. Rimasi a bocca aperta, come tutti gli altri 12 partecipanti al seminario. Fu il professor Sigismondo Pareto, superbarone del Dipartimento e mentore di Sbarbato, che ruppe il silenzio dopo cinque lunghi secondi di sconcerto generale: “Vediamo”, disse semplicemente. Sbarbato accese power point e ci mostrò una schermata di versi. “Non abbiamo tempo da perdere”, disse Pareto, “vediamo le prove”. “A tempo debito”, rispose l’altro in un tono gelido che sembrò arrogante.
Ora non starò a farla lunga. È accaduto che Sbarbato si è rifiutato di esibire l’originale del manoscritto. Il prof. Pareto lo ha denunciato per falso ideologico (art.479/493), negandogli anche il rinnovo del contratto di ricerca. Ne è seguita la diatriba accademico-legale che tutti conoscono.
Il Canto esibito da Sbarbato però è interessante e, dallo stile, la sua attribuzione sembrerebbe credibile. Così, sotto la pressione dei molti colleghi che non vogliono attendere l’esito del processo, e con tutti i dovuti caveat del caso, mi accingo a pubblicarlo con l’aggiunta di alcune note di commento. Lo faccio anche per invitare gli esperti a pronunciarsi sugli aspetti estetici e filologici del reperto.
È un frammento di grande interesse, e non tanto per l’incandescente contenuto – un dialogo tra un Marx sconsolato e un avvelenato Dante Alighieri – quanto perché si trova in uno stato di avanzata elaborazione: il Canto è quasi completo e sembra aver subito più di una limatura. È di difficile comprensione però, e ciò rende tanto più necessario corredarlo con un commentario. Peccato che Pareto e Sbarbato si stiano accapigliando su questioni di falsità ideologiche (che sono peraltro norma nella produzione accademica). In tal modo si sono esclusi dal diritto di commentare il testo. Ma per me è una fortuna: potrò mettere a frutto le mie competenze di dantista di qualche merito. Devo comunque precisare che, essendo stato nominato perito d’ufficio dalla Procura della Repubblica che si occupa del caso Pareto-Sbarbato, mi limiterò a commenti specifici sull’interpretazione dei versi. Il segreto istruttorio mi impedisce di fare considerazioni da cui possa trasparire il mio parere sulle indagini in corso.
Per venire alla materia, è significativo che il Poeta abbia numerato il Canto “III bis”. Evidentemente voleva mettere gli economisti in un luogo intermedio tra gli ignavi (Canto III) e i bambini non battezzati (Canto IV), come se attribuisse loro mancanze degli uni e degli altri. Dunque nessuno si aspetterebbe di trovarci Carlo Marx, il quale era tutto meno che un ignavo ed era figlio di un marrano. Ma il dialogo spiega che questa non è la parte dell’inferno in cui lui si trova a suo agio. Così come chiarisce che, fallito ogni tentativo di andare in gironi più interessanti, alla fine lui stesso ha accettato di rifugiarsi qui faute de mieux. Pare che non ci sia nell’inferno il girone giusto per punire tutti i peccati di questo mite mangiatore di bambini.
Canto III bis della Divina Commedia
Un uomo barbuto dal ghigno austero
e dal crine moro arringava la folla
3 – da un banco rosso bordato di nero.
“Abbasso l’inferno!” gridava, e bolla
papale stracciava. “L’assalto al vero
6 – cielo sia nostro dovere, ché zolla
produca ricchezza a chi la lavora
soltanto!” Però il pubblico voltandogli
9 – contro le schiene altere lo ignora.
“Che gride invano ai sordi?” Gli domando.
“Ahimé! Ché fu ‘l destino mio e ora
12 – e sempre, questo,” dice di rimando,
“né si può dare a me pena peggiore
che conversare con gli economisti
15 – eternamente, perché non v’è dottore
tra essi che non abbia in corpo misti
l’istinto del lenone e del cultore
18 – di vuote forme geometriche e artistiche”.
“Allotta dimmi, perché non altrove?”
“Con gli eresiarchi avrei voluto andare,
21 – tra gente onesta e fiera, in luogo dove
con Gramsci e Galileo dialogare.
Ma mi negò Minosse quel ricovero,
24 – adducendo la mia dottrina fare
‘l verso ad Atti (due, quarantatré-
cinque). Chi lo avrebbe detto che Santa
27 – Madre Chiesa m’avrebbe accolto, ahimé?
E per il mio comunismo! Ah, quanta
amara delusione ho patito in fe’
30 – mia a questa ch’è una pena di Tantalo:
sono in mezzo al lago e non vo’ bere”.
“Allotta perché non altro girone?”
33 – L’incalzo. “Io ci ho provato a vedere
di andare, confessando la passione
per la timida Lenchen, tra le schiere
36 – lussuriose dove soffre Platone.”
Questo nome lo pronuncia sprezzante,
sicché lo provoco: “Per ragionare
39 – di repubblica con lo ierofante?”
Lui canzonando mi fa: “Vuoi scherzare?
Quella degli Zoccoli è più allettante;
42 – in quel giron ne vorrei filosofare
con il Machiavello, che colà alberga
a cagion di sua foia per la Riccia
45 – e per il Riccio dalle belle terga.”
“A tal motivo del fallo di ciccia
hai chiesto che la pena ti sommerga?”
48 – “Son caduto con l’Helene un po’ alticcia,”
dice, con tono quasi assolutorio,
“’sì ch’aver confessato quel peccato
51 – veniale non mi avrebbe il purgatorio
risparmiato e poscia il cielo beato,
Dio mi guardi! in perenne consultorio
54 – con Tommaso e i dottori del papato.”
“Per questo hai ripiegato sulla scienza
di Ricardo che di lavor fa metro?”
57 – “Proprio così, e co’ glossatori senza
vista lunga e dagli occhi volti indietro
mo’ parlo soltanto dell’apparenza
60 – delle cose non dell’essenza, tetro
destino!” “Ma neppure il guardo tuo
volge avanti.” “Ah, sì,” mi fa celiando,
63 – “però come periscopio alza ‘l suo
raggio; così che lontano scrutando
ho divinato molte crisi e il duo-
66 – polio di avarizia e usura al comando
del quale s’è ingolfato questo crollo.
Ma non sono profeta a corto raggio,
69 – ché ripetutamente come un pollo
ho preannunziato il ritorno del maggio
radioso a breve, tirandomi il collo;
72 – a riconferma che l’eresia fa aggio
presso me sul giudizio e la pazienza.”
Né dava l’impressione di scherzare,
75 – snocciolando: “Non data ma cadenza
anticipai, ché mi basta spiegare
la necessità della ricorrenza
78 – di ogni congiuntura a lungo andare.”
“Dunque saresti migliore scienziato
de’ giullari di Chicago!” gli fo.
81 – E lui, che sembrava oramai lanciato,
non cogliendo l’ironia, fa: “no,
perfino io ho commesso un peccato
84 – di pochezza intellettuale.” “Ohibò,”
dico, “quale?” “Anzi, peggio: ne ho fatto
anche uno d’ acuta ingenuità.”
87 – “Ripeto, allotta quali?” “Con un atto
di idealista e volgar credulità
ho accolto la dottrina che ha astratto
90 – dal lavoro nuova divinità,
una che fa di suo corpo valore,
e non mi sono avveduto che così
93 – postulando ho posto ‘l due divisore
di cinque senza resto.” “Tutto qui?”
“Ti sembra niente? Aggiungi l’altro errore…”
96 – “Ahia!” “’l grande parricidio, che ‘si
ardito avevo senza orrore osato
tramare come il dio Prometeo,
99 – per difetto d’audacia l’ho mancato;
talché, non oltre andando l’apogeo
dell’intelletto tedesco bacato,
102 – figliolo del filosofo più reo
di pensiero oscuro sono rimasto.
Hegeliano, troppo hegeliano! Vedi
105 – la tragedia che ho innescato nel vasto
movimento della storia? Tu credi
fosse occorso per puro caso il guasto
108 – epocale architettato dalle fedi
d’un maestro russo e un pope georgiano
che di mia scienza hanno fatto un credo,
111 – di libertà un giogo, dando nell’ano
agli operarii, e ai critici di spiedo?”
“Colpe tue non riconosco. È umano
114 – errare d’altronde, e con chiarezza vedo
che ‘l peccato è altrui.” “E ‘l tormento è mio.
Non era mia intenzione dargli vita,
117 – ma è fiorito ‘l Marxianesimo ed io
ne porto l’onta e il nome: è una ferita
che rimane aperta, neanche Dio
120 – la potrà sanare, né una smentita
mia, ché pur non son marxiano. Addio.”
NOTE AL TESTO
5-8. L’assalto… lavora soltanto. “L’assalto al cielo” fu tentato per la prima volta in età moderna nella Comune di Parigi e cantato da Marx ne La guerra civile in Francia. Arthur Rimbaud, che aveva vissuto l’esperienza della Comune, dopo la sua caduta la celebrava come fosse stato un sabba infernale: “Tes pieds ont dansé si fort dans les colères, Paris!” E proponeva il suo programma più sovversivo: un “immense et raisonné dérèglement des tous les sens” come metodo per scardinare le porte che sbarrano il cammino alla libertà. Il “vero” cielo è tale perché non si trova in cielo. È il Nowhere di William Morris, l’utopia che può essere realizzata togliendo ricchezza e potere a chi non lavora, cioè togliendo chi non lavora.
17-18. lenone… artistiche. È noto che per Marx l’economia politica è una scienza borghese. Anche la più seria è comunque al servizio del capitale. Una parte di essa è pure volgare, quella che si pasce nel culto delle vuote apparenze superficiali coltivando solo l’eleganza formale dei modelli. Considerando che il marxista esistenzialista J.-P. Sartre rifiutò il premio Nobel per la letteratura per tema di trovarsi in cattiva compagnia, si può immaginare quale bolla papale avrebbe stracciato il Moro se gli avessero assegnato il premio per l’ideologia insieme a M. Friedman e altri “giullari di Chicago” (vedi più avanti).
22. con Gramsci e Galileo. Marx mostra di apprezzare assai la conversazione coi due scienziati rivoluzionari più per il valore di eresia delle loro teorie che per altro. La cosa appare sconcertante se si pensa che l’eresia gramsciana era rivolta contro il marxismo dei suoi tempi. Più avanti si capirà che non c’è nulla di sconcertante.
25-26. Atti (due, quarantatré-cinque). Il riferimento è al capitolo 2, versetti 43-45, degli Atti degli Apostoli: “I credenti vivevano insieme e mettevano in comune tutto quello che possedevano. Vendevano le loro proprietà e i loro beni e distribuivano i soldi fra tutti secondo le necessità di ciascuno”. Il criterio allocativo comunista che Marx enunciò nella Critica al programma di Gotha, “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, si trova dunque già nella Bibbia. Il Moro lo aveva ripreso da alcuni socialisti francesi (Blanc, Leroux) senza sapere della sua origine. Cosa avrebbe fatto se ne fosse stato edotto, e avesse capito che si stava scavando la strada al paradiso?
35. la timida Lenchen. Helene “Lenchen” Demuth era la colf della famiglia Marx, una giovinetta che l’aristocratica madre di Jenny von Westphalen, moglie del Moro, aveva regalato alla figlia come dono di nozze. Lenchen non era bella, né brutta. Era timida e riservata, ma dinamica e molto determinata. Non riceveva salario, a parte vitto, alloggio e vestiario, ed era lei che mandava avanti tutta la baracca (la padrona non aveva molto tempo da dedicare alle faccende domestiche, essendo impegnata nel lavoro di segretaria e scrivana di Marx). Un giorno del 1850 Jenny, che era in cura termale in Olanda, scrisse al marito a Londra: “Oh, se sapessi quanto mi mancate tu e i piccoli… So che ve ne prendete cura tu e Lenchen. Senza di lei non sarei tranquilla”. Poteva stare tranquilla: Lenchen si prendeva cura non solo dei bisogni dei bambini. Nove mesi dopo nacque Henry Frederick Demuth e l’amico Engels, per soffocare lo scandalo, si assunse la paternità di Freddy.
36-39. Platone… ierofante. Questi versi lasciano supporre che, in vista di una seconda edizione della Commedia, il Poeta intendeva modificare il testo sulla base di ciò che scrive nel Canto III bis. Quanto meno avrebbe dovuto togliere Platone dal Canto IV, in cui compare tra gli spiriti magni. Ora lo mette tra i lussuriosi. Forse perché ha reinterpretato maliziosamente il dialogo dell’amore? O forse perché è stato influenzato dal disprezzo di Marx verso il principe dei filosofi idealisti? Il pensatore tedesco, che indubbiamente non amava il greco (per il suo “misticismo”, ma anche per la sua intenzione di bruciare tutte le opere di Democrito), non è interessato a discutere con lui, non solo di amore, ma neppure di politica. È convinto che una repubblica governata da un’élite di esponenti dell’anima razionale dell’umanità è ciò che di più lontano si possa immaginare dal comunismo. E se gli avessero detto che quel modello di utopia della Ragione e della Giustizia aveva una qualche probabilità di realizzarsi nella storia, si sarebbe fatto più di una crassa risata. Perché non era vissuto nel Novecento!
40-45. Quella degli Zoccoli… belle terga. “Repubblica degli Zoccoli” è il nome che Machiavelli e Guicciardini attribuirono al Capitolo generale dei Frati Minori che si era riunito a Carpi nel 1521. Lì il quondam segretario fiorentino era stato inviato in missione speciale dai Dieci di Pratica. Il Machia, insieme al Guiccia (che era Governatore di Modena), si divertì a giocare uno scherzetto da preti alla repubblica dei frati. Marx mostra di apprezzare questo lato burlesco del mangiapreti più famoso del Cinquecento. E sembra invidiarne il lato lussurioso. A tal proposito è degno di nota quanto dice una denuncia anonima depositata nel “tamburo” il 27 maggio 1510: “Notifichasi a voi, signori Otto, chome Nicholò di messer Bernardo Machiavelli fotte la Lucretia vochata la Riccia nel culo: mandate per lei et troverete la verità” (M. Viroli, Il sorriso di Niccolò, Roma, 1998, p. 192). La Riccia è stata una delle numerose amanti del segretario, il quale non ha vergogna ad ammettere di essere talvolta dominato da una “disperata foia”. Quanto al Riccio, non si sa con certezza, ma da tre lettere della corrispondenza di Niccolò con Francesco Vettori (in una delle quali si accenna appunto al Riccio) parrebbe che il vir sapiens non fosse del tutto esente dal “vizio fiorentino”. Comunque, per tornare a Marx, lui dichiara di apprezzare ben altro dello spirito dell’acutissimus florentinus. Infatti dice di voler filosofare con lui. E si capisce, visto che la sua conversione al materialismo e al comunismo fu portata a termine nel 1843 sulla base di un approfondito studio dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.
54. Tommaso. È Tommaso d’Aquino, principe dei dottori della Chiesa. Marx dice che non gradirebbe conversare con lui più che con Platone. Ma forse per ignoranza. Non aveva letto quanto il filosofo domenicano aveva scritto sul diritto dei popoli alla ribellione, il diritto al tirannicidio e la legittimità degli espropri proletari.
55-57. scienza di Ricardo… metro. Tra tutti gli economisti classici David Ricardo era quello che Marx ammirava di più, riconoscendogli addirittura il merito di essere uno scienziato. Da lui riprese la teoria che usa il lavoro contenuto nelle merci come metro del loro valore. Ma dai versi 89-94 si capisce che infine si era reso conto (almeno con la visione post-mortem) che si trattava di uno dei più grossi abbagli causatigli dall’influenza dei suoi amati classici inglesi.
63-78. come periscopio… lungo andare. Il Moro si vanta di aver previsto il crollo dell’economia mondiale del 2008. Indubbiamente, se non ha anticipato la data precisa, ha spiegato rigorosamente, oltre che la tendenza alla globalizzazione, i motivi per cui le crisi si producono come fenomeni necessari e ricorrenti dell’economia capitalistica. Le cause vengono rinvenute in una combinazione di “avarizia” (cioè lo spirito d’accumulazione) ed “usura” (cioè la speculazione finanziaria). Marx aveva elaborato una complessa teoria delle crisi in cui collegava fattori reali (anticipando il modello Lotka-Volterra di Richard Goodwin) e fattori monetari (anticipando la teoria della moneta, della speculazione e del credit crunch di Keynes-Minsky).
68-71. profeta a corto raggio… il collo. Il Segretario Generale della I Internazionale ammette di essere stato dominato dall’impazienza rivoluzionaria e di non essere stato buon profeta di eventi politici. Si era aspettato la rivoluzione proletaria nel 1848 e poi anche nel 1857, e ne era uscito scornato. Nel 1871 era già un po’ meno convinto. Comunque ha sempre sperato che le rivoluzioni proletarie avessero successo in breve volger di tempo. Per la sua anima sovversiva No-where is Now-here. E queste speranze le ha coltivate nonostante lui stesso avesse teorizzato la necessità che si dessero tutte le condizioni economiche prima di poter parlare di superamento del capitalismo.
89-94. la dottrina che ha astratto… senza resto. È la dottrina del valore-lavoro, che Marx ha ripreso da Ricardo (vedi sopra) e spiritualizzato con un po’ di teologia saintsimoniano-hegeliana. Il “lavoro astratto”, come un demiurgo manicheo, “crea” il valore “materializzando” la propria “forza fisica”. Quando è giunto a trasformare i valori in prezzi, Marx si è accorto che la matematica gli faceva cilecca. Ha forse intuito che ciò che difettava era la logica, ma non ha voluto approfondire e ha liquidato il problema con un “alla fine i conti devono tornare” (come lo citò Che Guevara in punto di morte). Nella teoria c’è una contraddizione analitica: “due divisore di cinque senza resto” significa 2×2=5. Peraltro l’equazione può essere presa come espressione matematica della celebrata logica dialettica. Marx, a dire il vero, non si è fatto impressionare più di tanto da tale bizzarria hegeliana, ma siccome esistono ancora oggi degli hegelo-marxisti, conviene mostrare in cosa consiste questo prodigio scientifico. “La contraddizione come unità concreta di opposti che si escludono a vicenda è l’autentico nucleo della dialettica… Se qualsiasi oggetto è una contraddizione viva, quale deve essere il pensiero che la esprime?” La logica dialettica, naturalmente! Nella quale “la contraddizione oggettiva trova un rispecchiamento nel pensiero” (E. Ilenkov, Logica dialettica, Mosca-Roma, 1978, p. 324-325). Si può tradurre questo tipo di logica in una formula matematica? Senz’altro! Si ponga +1 per “l’essere” e -1 per la sua “negazione”. Quale operazione aritmetica si può usare per esprimere l’unità degli opposti? Non può essere né la moltiplicazione né la divisione, perché 1 = 1x(-1) = 1/(-1) = -1, nel qual caso l’essere sarebbe identico al non essere. Non può essere neanche la somma, perché 1 = 1+(-1) = 0, nel qual caso l’essere sarebbe identico al nulla. Può essere la sottrazione, poiché solo l’operazione della negazione della negazione è in grado di realizzare la superiore unità degli opposti “che si escludono a vicenda”. Sarà 1 = 1-(-1) = 2. Ora, aggiungendo 3 a destra e a sinistra, il risultato non cambia: si ottiene che 1+3 = 2×2 deve essere uguale a 2+3 = 5. Perché bisogna aggiungere proprio 3? Perché, se è 1 = 1-(-1) = 2, allora è anche 1 = 1-(-2) = 3. Ecco dimostrato matematicamente il dogma della Santissima Trinità (Tesi-Antitesi-Sintesi).
96-104. grande parricidio… troppo hegeliano. Marx si è formato su Hegel ma, come Amleto, ha lottato contro il fantasma del padre per tutta la vita, non riuscendo mai a liberarsene del tutto. Ha esordito giovanissimo (quando aspirava a diventare poeta) “sputando su Hegel”. Poi si è convertito all’idealismo (quando voleva diventare filosofo). Infine (quando è diventato un rivoluzionario comunista) ha tentato una spietata critica liberatoria. Ma è rimasto al di sotto delle proprie ambizioni (vedi R. Finelli, Un parricidio mancato: Hegel e il giovane Marx, Torino, 2004).
105-112. la tragedia… di spiedo. Qui Marx suppone che i suoi abbagli ideologico-analitici abbiano dato esca a una vasta tragedia storica: tipico errore di sopravvalutazione del filosofo della storia. In realtà capisce che la vera colpa è del maestro russo (Lenin aveva una laurea abilitante all’insegnamento) e del pope georgiano (Stalin aveva studiato in un seminario della Chiesa ortodossa). Il Marxianesimo è la nuova dottrina annunciata dai due bolscevichi (e perfezionata dal profeta di corte G. Lukàcs). È molto più hegeliana di quella di Marx, ed è servita a giustificare un sistema di dittatura sul proletariato che non ha nulla da invidiare alla repubblica di Platone.
117-121. Marxianesimo… Addio. Marx è tormentato dalla visione della nascita di una nuova religione, un tormento che è una vera pena del contrappasso. Sa di non averne avuto l’intenzione, ma si vergogna di averle dato il nome. Si direbbe che aveva letto “La leggenda del Grande Inquisitore” (I fratelli Karamazov era uscito tre anni prima della sua morte). A quanto riferisce Engels, verso la fine dei suoi giorni il Moro dichiarò: “Ce qu’il y a de certain c’est que moi, je ne suis pas Marxiste” (The Collected Works of Karl Marx and Frederick Engels, London, 2001, vol. 46, p. 356). Aveva intuito cosa stava per accadere? Forse sì, perché conosceva gli effetti devastanti dell’alienazione e del connesso bisogno umano di religione, e aveva trovato in Machiavelli la spiegazione dell’uso della fede come strumento di oppressione dei popoli.