Cinema e orrore. A proposito della ottantaduesima Mostra del Cinema di Venezia*
di Valerio Romitelli
Il tema che si è imposto a questa ottantaduesima Mostra del Cinema di Venezia è stato inevitabilmente politico. Più precisamente quello della politica come orrore. Come massimo orrore. Il luogo in questione lo si sa è Gaza. Il criminale impunito e ad oltranza recidivo è il governo israeliano. Suo complice altrettanto recidivo l’Occidente intero, l’Italia meno che mai esclusa. Dunque, bene si comprendono i ventidue minuti di applausi (questa volta sì è il caso di contarli) seguiti alla proiezione di The voice of Hind Rajab di Kaouther Ben Hania: la regista tunisina che con questo film (ricordiamolo a loro merito: sostenuto anche da star quali Brad Pitt e Joachin Phoenix come produttori) immerge totalmente lo spettatore in questo orrore.
Grande quindi la delusione per la mancata assegnazione a questa opera del Leone d’oro? Oltre il danno poi la beffa di relegarla in un secondo posto fianco a fianco con una pellicola (Smashing Machine) dedicata alle “immagini di dominio e distruzione” incarnate da un lottatore americano, vera “macchina distruttrice”, secondo le parole dello stesso regista Benny Safdie? Un simbolo delle vittime del massimo orrore contemporaneo piazzata dunque praticamente pari merito ad un simbolo della violenza più gratuita e spettacolare: strana quanto significativa coincidenza, non c’è che dire! Ma lasciamo stare la delusione. O ci vogliamo immaginare di abitare un mondo dove la giustizia trionfa?
Come istituzione la Mostra del cinema di Venezia non può non partecipare dei tormenti dell’opinione italiana ed europea. Un’opinione cui capita la strana situazione di essere quanto mai divisa tra governanti e governati o, se si preferisce, tra chi più può e chi non può niente o quasi. Senza citare tante statistiche è infatti arcinoto (salvo che a tanta stampa mainstream) che nel nostro continente molte autorità dette massime hanno consensi minimi o meno che minimi a proposito di un sacco di questioni cruciali come le guerre presenti e quelle sempre più convintamente previste. In una simile situazione come pretendere che i sistematici legami anche di tipo bellico tra governanti israeliani e occidentali, italiani inclusi, possano essere sfregiati da un Leon d’Oro non diplomaticamente conforme?
Non resta dunque che rassegnarsi alla realpolitik che ha portato al secondo posto a The voice of Hind Rajab? Ci si dovrà dunque accontentare del fatto che lo stesso vincente Jarmusch col suo Father, mother, sister, brother, non nasconda il suo rigetto nei confronti delle politiche israeliane e in favore della causa palestinese? Basterà insomma registrare e sottolineare il fatto che l’orrore in corso a Gaza risulta sempre meno tollerato anche tra cultori e amanti della settima arte? Non esattamente. Sotto la punta di questi dati di cronaca, c’è infatti tutto un oscuro e profondo iceberg con cui fare i conti. L’orrore presentato dalla voce in diretta di Hind Rajab e il suo contesto rappresentato dal film di Kaouther Ben Hania, nella loro lancinante tragicità possono essere ascoltati e osservati come sintomi abissali, non solo di quanto sta accadendo a Gaza, ma anche di come il cinema tutto, se non vuole tradirsi, è costretto a rapportarsi al reale. Detto altrimenti, l’impressione che lascia questa ottantaduesima Mostra veneziana è tutto tranne che confortante: ci mette di fronte ad un mondo zeppo di orrori, dove il cinema non è bello se non tratta del brutto più estremo. Troppo esagerato? Forse. Ma non altrimenti riesco a giustificare le mie preferenze nella vastissima offerta di film di questo festival. Nella mia personalissima e quindi arbitraria classifica infatti dopo The Voice di Hind Rajab vengono il francese Grand Ciel, il taiwanese Nühai (Girl), il tailandese The funeral casino blues, il colombiano Barrio Triste e l’italiano La valle dei sorrisi.
Il primo (presentato nella sezione Orizzonti, regia di Akiro Hata – giapponese di nascita, ma francese per scelta professionale- e Damien Bonnard come attore protagonista) con comicità involontaria e ben poca sensibilità è stato presentato a volte come film di fantascienza, obliterando così la sua estrema attualità. Per capirci qualcosa di più si consiglia l’intervista al regista e all’attore principale (https://www.youtube.com/watch?v=vY9kywiRpVY). Tema cruciale è la condizione attuale del lavoro manuale, quello che un tempo si sarebbe detto del muratore, all’interno di un mega cantiere che promette di rendere possibile un nuovo quartiere tecnologicamente all’avanguardia. L’assenza totale di tutele per gli operai, specie se “sans papiers”, il carrierismo tanto spietato quanto tormentato, l’aggressività dei tempi e della catena di comando nei programmi di esecuzione del gigantesco edificio: tutti questi aspetti sono perfettamente ritratti in questo cupo affresco in cui la pericolosità del lavoro si rivela in tutta la sua mostruosità omicida. I sotterranei labirintici perennemente da ricostruire si rivelano posseduti dallo spirito di un qualche invisibile Minotauro sterminatore animato dalla cieca urgenza dei dirigenti del cantiere.
Quanto al film in concorso taiwanese Nühai (Girl) (regia di Shu Qi, attori protagonisti Bai Xiao-Ying, Joanne Tang Yu-chi (9m88) e Roy Chiu) narra delle coercizioni al limite della tortura subite da un’intera generazione di tre donne, le cui vicissitudini quotidiane sono descritte e ritratte mirabilmente. Sotto imputazione senza attenuanti sono i conformismi culturali senza scampo, per altro vanamente derubricabili come attinenti al solo estremo oriente, essendo invece ben riconoscibili anche come “cosa nostra”.
The funeral casino blues è invece l’opera presentata nella sezione Orizzonti del regista tedesco Roderik Warich, con interpreti principali Jutamat Lamoon, Wason Dokkathum e Jutarat Burinok tutti tailandesi. Focus tematico qui è la vita delle ragazze di Bangkok che anche per consuetudini tradizionali sconosciute altrove si dedicano alla prostituzione. Debiti di gioco, arretrati da saldare, necessità economiche delle famiglie residenti fuori dell’immensa area metropolitana fanno da sfondo e incentivo a tali attività esercitate apparentemente quasi per gioco. Persino l’amore, quello romantico, non manca a volte di essere possibile. I pericoli però incombono e causano la scomparsa non infrequente delle ragazze preda delle perversioni dei clienti stranieri. Il film ne fa denuncia intensa ed efficace, ma cede alla tentazione di perdersi in improbabili quanto scontati scenari “da fantasmi”.
A Stillz, giovane e ostentatamente misterioso fotografo (https://www.4pareteita.it/2025/09/04/chi-e-stillz-biografia-eta-carriera-film-regista-barrio-triste/), si deve poi la regia di Barrio Triste (sezione Orizzonti), dove è ritratta una serie di vicissitudini e tormenti affliggenti una gioventù senza speranze, né aspirazioni, abitante nella periferia quanto mai degradata sita nelle colline sovrastanti Medellín: la città colombiana, famosa per essere il massimo centro mondiale di spaccio di cocaina e di guerra tra cartelli nemici, almeno nel corso di tutti gli anni Ottanta. Pur essendo proprio questi gli anni i cui si svolgono le vicende del film, esso non vi dedica alcun cenno diretto preferendo intercalare sequenze di immagini crude e realistiche della vita di quartiere a scene splatter e horror a volte completamente fantastiche, allusive forse della inenarrabile tragedia collettiva in corso. Il tutto, apprezzando il genere, di sicuro impatto anche grazie alla intensa musica d’accompagnamento della cantautrice venezuelana Arca (https://www.giornaledellamusica.it/dischi/arca-diva-mutante).
Del film fuori concorso con la regia di Paolo Strippoli La valle dei sorrisi e l’interpretazione come sempre impeccabile di Michele Riondino è da notare l’accurato e penetrante studio dei comportamenti apparentemente gioviali di una piccola comunità montana, comunque assediata dai feroci ricordi di una tragedia collettiva ben lungi dall’essere stata elaborata. Si può per altro eccepire che una rappresentazione così convincente di un orrore ordinariamente esperito non necessariamente doveva lasciarsi sedurre da quegli stilemi più tipici del genere splatter o horror anche qui insistenti.
Morale della favola? Due annotazioni.
Una riguarda appunto il ricorso come si è visto frequente nei film citati a questi stilemi macabri o raccapriccianti in fondo caricaturali del vero orrore: stilemi che altro non sono che una sorta di “effetti speciali” volti a scuotere ad ogni costo e magari anche solo per attimo le emozioni dello spettatore, nonché a sedare il timore dei cineasti di non riuscirci in modi più convincenti. Certo, un segno dei nostri tempi, che di orrori reali ne conoscono fin troppi. Eppure segno anche di occasioni perdute: le occasioni di fare pensare il perché di tali occorrenze nefaste e dunque come provare a farvi fronte, anziché perdersi tra sentimenti sovraeccitati fugacemente.
Un’altra riguarda l’immenso pregio e la grande responsabilità che ha il cinema oggi: forse oggi più che mai. Ai giorni nostri qual’è l’arte o il fenomeno culturale capace infatti di suscitare la voglia di riflettere e discutere di cose serie su come siamo messi, cosa stiamo facendo o dove stiamo andando, come umanità? Immergendosi in una Mostra del cinema come quella di Venezia è proprio di cose simili che sorprendentemente, malgrado caos e rumori di fondo, capita di sentire qua e là discutere la folla altrimenti scomposta degli spettatori. Dunque sì come fruitori della settima arte cerchiamoli e troviamoli i modi di chiedere sempre di più a chi il cinema lo fa, di farlo davvero, non dandosi pace, non trovando scappatoie rispetto alle responsabilità che loro toccano. Ammettiamo e facciamo loro riconoscere che i nostri destini, al di là di dove e di chi siamo o dove viviamo, dipendono anche da come e dove il cinema va.
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* Articolo pubblicato in data 11/09/2025 su: www.juliet-artmagazine.com
